mercoledì 19 novembre 2014

Capolavoro Uturuncu


La notte è trascorsa in modo concitato: circa un'ora dopo aver mangiato i cibi liofilizzati, quando eravamo già nei sacchi a pelo, Dimitri comincia a sentire un gonfiore in gola e ad un certo punto dice ad Alberto di fare un po' fatica a respirare e anche a parlare: Alberto comincia a sudare freddo nel sacco a pelo: pensa ad un edema della glottide (con adenalina e cortisone che - di comune accordo - sono stati lasciati a Quentena Chico) e si vede già a dover praticare una tracheotomia d'urgenza con coltellino svizzero alla luce della lampada frontale in tenda a 4750 metri... recuperiamo una forchetta e un'ispezione faringea ci tranquillizza: è solo l'ugola di Dimitri che per la polvere e l'aria secca si è gonfiata come un oliva... niente paura... entro l'alba sarà a posto.
Intanto la temperatura in tenda scende a -3, ma se non fosse per il vento rabbioso che scuote incessantemente la tenda, nei nostri supersacchi a pelo si dormirebbe anche bene...

Quota 5700
Il problema è uscirne alle 4 quando suona la sveglia, per cui... rimandiamo alle 5: ci scaldiamo un bel pò di the da bere subito e un litro da portarci nella borraccia termica. Dalla finestrella della tenda guardiamo fiori: il cielo è "despejado", non c'è neanche una nuvola e appena usciamo dalla tenda il sole sorge sull'orizzonte. Il meteo è perfetto: diamoci da fare. Lasciamo le borse in tenda e partiamo scarichi. Dobbiamo salire 1000 metri di dislivello in bici e altri 300 a piedi. Lo sterrato ora ghiaioso, ora roccioso, ora sabbioso, ora farinoso e per alcuni tratti nevoso è molto duro; il fondo cambia continuamente di colore: dal nero al bianco fino al rosso e al giallo dello zolfo (siamo su un vulcano). Il calore delle prime luci del giorno contrasta con il freddo che sentiamo e il panorama di cui cominciamo a godere ci rinfranca un pò ma mano a mano che si sale la carenza di ossigeno si fa sentire: da un certo punto in avanti (intorno ai 5200 m) dobbiamo spingere la bici perché, anche nei tratti in cui il fondo è pedalabile, anche la pedalata con la corona anteriore più piccola è uno sforzo troppo continuo per essere sostenuto con l'ossigeno disponibile. L'ultima parte della salita passa tra le solfatare dove alla carenza di ossigeno si associa la presenza di nuvole di zolfo.
In vetta quota 6008
L'Uturuncu è una montagna con due cime vicine separate da una sella: la strada che sale si ferma alla sella a quota 5700 in un campo di solfatare e fanghi ribollenti. Arriviamo alle 10.30 in perfetto orario e facciamo le prime foro: dall'altra parte della sella si intravedono le lagune del Parco Avaroa.
Alla nostra destra c'è la parete con gli ultimi 300 metri: è maledettamente verticale ma il fondo è farinoso e il percorso è a zigzag.
Alle 10.58 lasciamo le bici (incustodite, tanto non abbiamo incontrato nessuno da ieri) e partiamo: ogni passo è fatica pura e per alzare il piede bisogna ogni volta fare uno sforzo straordinario. Facciamo molte pause e ci vengono in mente i racconti degli alpinisti. Dobbiamo affrontare anche alcuni passaggi su neve, che di per sé non presentano rischi particolari, ma stiamo salendo con le scarpe da bici e i piedi si infradiciano subito. Superato lo zigzag c'è un piano ghiaioso. E poi, e poi, e poi... la vetta! È dagli zero metri di Lima e da 3800 km che aspettiamo questo momento!
Arriviamo in cima alle 11.45, esultiamo e ci abbracciamo! Quota 6008 metri sul livello del mare, mai saliti così in alto nella nostra vita! Il cielo è ancora senza nuvole, la temperatura è tiepida e non c'è vento. Ma soprattutto - signori - il panorama che ci si presenta là sotto a 360 gradi ci lascia a bocca aperta! È una visione primordiale e sterminata in cui si apprezza la curvatura della superficie terrestre; sulle colline ondulate color terra bruciata si ergono a perdita d'occhio montagne più alte in cui spiccano una miriade di vulcani, alcuni innevati; è facile immaginare il ribollire del magma quando il pianeta era in "preparazione"; sono riconoscibili anche le basi di quelli che dovevano essere due ghiacciai che ancora abbracciano il Cerro Quentena, alla base del quale vediamo i luccichii delle lamiere dei tetti del paese di Quentena Chico, da cui siamo partiti ieri pomeriggio e dove dobbiamo tornare stasera. Tra una collina e l'altra le molte lagune del Parco Avaroa: turchine, bianche, verdi e rosse contrastano con il colore uniforme del deserto.
E sopra un cielo azzurro senza fine: che meraviglia!
Facciamo una miriade di foto. Non possiamo rimanere in vetta troppo tempo perché abbiamo tutta la discesa da affrontare: ci concediamo 30 minuti di cui gli ultimi 5 di contemplazione silenziosa.
La discesa a piedi non presenta difficoltà se non i sassolini che entrano nelle scarpe a tormentare i piedi ancora umidi per la neve. Tornati alle bici alle 12.40 con 20 minuti di anticipo, ci mangiamo l'ultima barretta e iniziamo la discesa in bici: se in salita si facevano i 4 km/h, in discesa si fanno gli 8 perché lo sterrato è impegativo, il campo base dista 10 km e un problema alla bici qui significa passare la notte a -20! Scendiamo con prudenza fino alla tenda dove ci diamo un bel cinque, riposiamo un pò e poi cominciamo a smantellare il campo base: sono le 14.00 ma siamo cotti e con un pò di mal di testa (che una tachipirina è sufficiente a guarire); ma la giornata non è finita. Dobbiamo tornare a 4200, a Quentena. È discesa ma lo sterrato sabbioso e roccioso farà si che ci vogliano almeno due ore, sempre che il vento non ci soffi contro.
Alle 15.30 partiamo e grazie ad un vento contrario solo moderato siamo al paese alle 17.30 (dove ci aspetta il solito secchio di acqua calda per la doccia). Il ritorno dalla sella a Quentena (31 km di sterrato) è stato facilitato dal fatto che ci è bastato seguire le tracce lasciate dai nostri copertoni all'andata (quando invece ci eravamo avvalsi di un disegno di Don Marcelo - il proprietario dell'alloggio): in due giorni non abbiamo incontrato nessuno, l'Uturuncu è stato "solo per noi" e questo ci ha dato durante la salita la sensazione di trovarci in un luogo ancora più remoto (di fatto ci troviamo in Bolivia e in mezzo al deserto del Lipez, ma se non fosse bastato...). Quando ti trovi difronte a visioni spettacolari e maestose, vorresti che tutte le persone a cui vuoi bene fossero lì a goderne con te. Scendendo però abbiamo deciso di dedicare la salita all'Uturuncu, che consideriamo la ciliegina sulla torta del nostro viaggio, alla memoria e alla famiglia di Andrea Zambaldi, astro nascente dell'alpinismo veronese, scomparso pochi mesi fa salendo verso gli 8000. Non abbiamo avuto occasione di conoscerlo direttamente, ma siamo sicuri che saliva per la stessa "in-utile" ragione per cui anche noi oggi salivamo.

2 commenti:

  1. comunque noi eravamo lì con voi. la pagina dello spot è aperta 24 h su 24 x vedere dove siete

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  2. È un racconto commuovente...grazie...eli

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